Le dimissioni di Cuperlo, ovvero la sindrome degli ex PCI

di maltus92

gianni-cuperloLe dimissioni di Gianni Cuperlo dalla presidenza del PD sembrano aprire una nuova pagina di scontri fratricidi all’interno di quel partito. Con la differenza, rispetto al passato recente, che questa volta i numeri per dare battaglia negli organi di partito non ci sono: i “renziani” difatti sono stra-grande maggioranza all’interno della Direzione Nazionale e dell’Assemblea Nazionale. La cosiddetta sinistra del PD, se mai volesse cercare lo scontro, dovrebbe farlo all’interno del gruppo parlamentare, dove Renzi e i suoi sono in minoranza; ma questo comporterebbe un rischio più serio, perché esporsi contro un segretario eletto da poco sull’onda di un successo elettorale travolgente (quasi il 70% dei voti) attraverso sgambetti parlamentari che sarebbero prontamente evidenziati e sottolineati dai media comporterebbe finire sotto il fuoco di fila di un’opinione pubblica inferocita contro la classe politica in generale, che identifica la minoranza PD con il “vecchiume politico” e che per il momento pare decisamente favorevole al nuovo corso inaugurato dal neo-segretario. Il rischio di rafforzare ulteriormente la figura di Renzi trasformandolo in un martire agli occhi dell’elettore medio, esattamente ciò che è avvenuto con la demonizzazione dell’avversario di sempre Berlusconi, è dietro l’angolo. E francamente non penso che la sinistra del PD, i vari Cuperlo e Fassina, siano così ingenui da non averlo considerato.

Quello che in realtà mi riesce difficile ignorare è come queste dimissioni, così come quelle di Fassina, siano sintomatiche di un malessere di una parte del partito ben specifica che non digerisce l’approccio di Renzi alla leadership. Pur tenendo conto della specificità e della varietà delle posizioni (Matteo Orfini ad esempio pare più cauto), quello che traspare è l’incapacità di quel nucleo di funzionari e dirigenti formatosi all’ombra del mito del “partitone”, della “Ditta”, di accettare alcuni principi di base della vita di un moderno partito politico. Dico di un moderno partito politico progressista di stampo europeo. Il complesso d’inferiorità degli ex comunisti di matrice berlingueriana, unito a una metodologia d’azione basata sul centralismo democratico e sull’unità del partito ad ogni costo (compreso quello di evitare discussioni importanti e necessarie in quanto “divisive”), li spinge da sempre verso una strategia a doppio binario: quella della “democrazia consociativa”, a livello parlamentare/governativo e di partito. Democrazia consociativa, che si fonda sulla mediazione estenuante fra le forze politiche a livello parlamentare (proiezione del mito perenne del compromesso storico e del vecchio modello iper-parlamentarista uscito dalla Costituzione del 1948, che risentiva dell’uscita recente dalla dittatura fascista) e sul sacrificio sull’altare dell’unità del partito di ogni forma di dibattito che possa risultare divisivo per il partito stesso.

Una formazione di questo tipo non può che indurre a guardare con sconcerto a una cosa assolutamente normale quale è l’atteggiamento di Renzi: tolte di mezzo le discussioni sulle asprezze caratteriali del segretario e sul suo atteggiamento spicco e sbrigativo, Renzi si comporta da vincitore. Ha vinto, ha preso i voti, guida il partito attraverso la sua maggioranza. La maggioranza governa, la minoranza si acconci pure a fare l’opposizione interna. Una cosa inconcepibile per chi è stato abituato fino a ieri dalla pratica della democrazia consociativa e del patto di sindacato fra correnti, di cui la segreteria Bersani è stato il momento più alto. Nel partito uscito dalla rivoluzione (dal latino “revolvo”, tornare indietro) bersaniana del 2009, non esistevano una maggioranza ed una minoranza: dopo nemmeno un anno da quelle primarie, il capo della minoranza interna Dario Franceschini ha fatto un accordo con la maggioranza portando suoi uomini dentro gli organi di partito. Se per un breve momento si era potuto pensare a una normale dialettica interna fra chi aveva vinto e aveva perso, con ruoli ben distinti, quelle illusioni si sono infrante contro un muro nell’arco di breve tempo.

E qui sta la chiave di lettura dell’atteggiamento della sinistra interna: Fassina, Cuperlo, non hanno nessuna intenzione di comportarsi da minoranza interna. Aver perso il controllo del partito è un evento di tale portata e gravità per chi è sempre stato educato al principio del partito come fine e non come mezzo da destabilizzarlo completamente. Essere rimasta confinata in maggioranza nel solo gruppo parlamentare rende la sinistra PD confusa, impaurita e quindi ancora più aggressiva. La strategia prescelta assai probabilmente sarà quella di strutturarsi come partito nel partito, che è cosa ben diversa dal fare la minoranza: dalla loro ci sono ancora buona parte delle strutture, dei circoli, del gruppo dirigente locale, la cassaforte degli ex DS gelosamente custodita dall’ex tesoriere Sposetti. Avendo perso il loro spazio d’influenza, opereranno per costruirsene un altro, che sia loro e controllabile solo da loro. E giunti a quel punto, forse immaginare una scissione per mano di un gruppo anche ristretto di quell’area – preso atto dell’impossibilità di influenzare direttamente il partito o di modificarne la strategia – non sarebbe più tanto uno scenario di fantapolitica.