The Endless River – una (sintetica) guida
Questo post è diverso da quelli che pubblico di solito, perché parla di musica. Intendiamoci: non mi sono mai considerato un esperto né un aspirante critico. Quindi quella che troverete qui non è una recensione pomposa o un trattato di musicologia, ma la semplice riflessione di un appassionato, per la precisione di un grande fan dei Pink Floyd.
Proprio del mitico gruppo inglese infatti vi voglio un minimo raccontare. Oggi infatti, almeno in formato digitale, è uscito quello che è il loro epitaffio, ovvero “The Endless River”. Un disco molto particolare, lo anticipo subito, e che è arrivato a sorpresa, senza alcun preavviso. Di norma quando una band se ne sta in silenzio per vent’anni senza rilasciare materiale inedito si tende a ragionare un po’come si fa con le persone scomparse, se ne dichiara la morte presunta. Sembrava che questa legge non scritta dovesse valere anche per i Pink Floyd, anche perché a parte una memorabile reunion della formazione originale (Roger Waters, David Gilmour, Richard Wright, Nick Mason) al Live 8 del 2005 il gruppo (dal 1986 composto formalmente solo dal batterista Mason e dal chitarrista Gilmour) era inattivo dal 1994, anno della pubblicazione del disco “The Division Bell” e del grandioso (e breve) tour che ne era seguito. La morte del tastierista Richard Wright (avvenuta nel 2008) aveva poi fiaccato ipotesi di ulteriori reunion o di nuovi lavori in studio, mettendo (apparentemente) fine all’epopea dei Floyd. Finché quest’estate, nel bel mezzo del torpore e della quiete di luglio, la moglie di David Gilmour, la giornalista e scrittrice Polly Samson, se ne è uscita in maniera assolutamente naturale con questo tweet, che potrei tradurre all’incirca così: “uh, a proposito, a ottobre esce il nuovo disco dei Pink Floyd, che si chiama The Endless River. È molto bello ed è il canto del cigno di Rick Wright”. Come era prevedibile la notizia ha fatto il giro del mondo all’istante, provocando un bel po’di stupore e subbuglio. Ed effettivamente, chi se l’aspettava?
Dopo una lunga quanto sfiancante attesa per noi fan sfegatati (da luglio a novembre, data di uscita ufficiale), finalmente ecco arrivare il disco. Qualcosina era già filtrato in quei mesi, a essere onesti. Intanto la genesi di questo inaspettato lavoro: il materiale era per la gran parte stato registrato fra il 1993 e il 1994, durante le stesse session che hanno portato al rilascio dell’album The Division Bell. Invece che divenire parte di quell’album, il materiale finito in “The Endless River” era stato abbandonato nei soliti cassetti per quasi vent’anni, in quanto il grandioso progetto originario di un doppio album diviso fra “canzoni” e pezzi strumentali era stato poi abbandonato in favore di un album standard (The Division Bell, appunto). E qui si spiega una delle caratteristiche di The Endless River, disco quasi interamente strumentale; il materiale in esso contenuto consiste infatti in ciò che nel 1994 era stato accantonato, ovvero la parte strumentale e meno “ortodossa”, in seguito rielaborata e arricchita con sovra-registrazioni. Nel 2014 è quasi straniante pensare alla musica senza parole, specie per i ragazzi più giovani. In generale è abbastanza difficile al giorno d’oggi concepire un pezzo musicale che esuli dal format canzone, a meno che uno non rivolga il pensiero ad esempio a generi come la musica classica o le grandi sperimentazioni degli anni’60 e ’70 del secolo scorso (come il progressive rock, di cui i Pink Floyd furono pionieri).
Per capire The Endless River una chiave di lettura importante è la figura di Richard Wright. L’album è infatti, a sentire Mason e Gilmour, un tributo alla sua memoria. E ascoltando questo lavoro è effettivamente impossibile non rendersene conto. Il suono delle tastiere, il famoso “tappeto sonoro” di Wright, permea l’intera opera, emerge nitido in ogni sua singola parte. Particolarmente significativi in questo senso sono due brani, “Autumn ’68” (ricavato da una registrazione del 1968, con Wright che improvvisa con un mastodontico organo a canne) e quello che forse è il pezzo più “potente”, “It’s what we do”, dialogo solenne e struggente fra la chitarra elettrica di Gilmour e le tastiere e l’organo Hammond di Wright.
Notevoli poi sono altri pezzi quali “Skins”, apparentemente un agglomerato di suoni e fill di batteria ripetuti in maniera ossessiva, in realtà per un orecchio attento un evidente richiamo alla prima fase più sperimentale e di avanguardia dei Pink Floyd, o “On Noodle Street”, pezzo molto soft e rilassante e che ovunque mi sarei aspettato di trovare tranne che in un disco dei Pink Floyd. E last but not least, a chiudere il disco è l’unica canzone presente, “Louder Than Words”, un brano malinconico ed evocativo il cui testo è l’addio cantato da Gilmour all’amico e collega defunto, oltre ad essere in generale un inno alle forti amicizie.
Il resto lo lascio scoprire a chi per caso volesse ascoltare The Endless River, cosa che è possibile fare gratuitamente ad esempio su Spotify. Concludo con un suggerimento concreto su come ascoltare questo album: essendo diviso in quattro sezioni, ognuna di esse scorre via all’ascolto molto fluida, all’incirca come il fiume senza fine citato nel titolo. Per coglierne l’essenza, dunque, è meglio gustarselo per intero e tutto di seguito, senza saltare da una canzone all’altra. Il risultato non vi deluderà